Intervista a cura di Mirko Bonfanti

Nella storia della fotografia sono molti gli autori che hanno utilizzato l’autoritratto come forma di espressione, di ricerca, indagine di sé. Moltissimi altri si sono fotografati senza mai mostrare i risultati al pubblico. Quasi tutti ci siamo cimentati almeno una volta.
Lasciando da parte le statistiche, l’autoritratto fotografico è un genere che, nelle sue accezioni più intimiste, coinvolge in particolar modo il momdo femminile. Ricordiamo nei primi decenni del ‘900 il trasformismo di Claude Cahun, a seguire la fiction di Cindy Sherman, il surrealismo di Francesca Woodman, fino ad arrivare in tempi recenti alla ricerca personale di Cristina Nunez, diventata addirittura un format/laboratorio.

Tra i giovani fotografi che lavorano con la macchina puntata verso di sé, Sofia Uslenghi si è distinta grazie al suo particolare stile che accompagna lo spettatore attraverso un percorso fatto di atmosfere morbide ed avvolgenti, fusioni di immaginari, strati di memorie ed affetti, grovigli di radici naturali ed identitarie.

Qual è la tua personale storia della fotografia?
Quando ero piccola mio papà faceva il fotografo al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, e passavo del tempo con lui in camera oscura dopo essere stati sugli scavi. Sarebbe molto romantico se la mia passione per la fotografia fosse nata lì, ma era il periodo dei film di Indiana Jones ed ero più interessata a fare la piccola archeologa. La mia relazione con la fotografia è iniziata più banalmente all’inizio degli anni 2000 quando sono esplose le macchine fotografiche digitali. Tutti a fotografare.Io pure, coinvolta dalla moda. Poi però
non mi sono mai stufata, ho imparato a guardare meglio a forza di fare, credo. Fatto sta che non c’è stato un momento in cui ho deciso di fare la fotografa, credo di non averlo ancora stabilito davvero.

L’intervista completa qui: http://magazine.discorsifotografici.it/memoria-e-nostalgia-gli-autoritratti-di-sofia-uslenghi/