Mostra personale a cura di Nicolas Ballario


9 maggio – 4 giugno 2024 | h. 11.00 – 20.00 – martedì chiuso
Ingresso gratuito su prenotazione scrivendo a galleria@lampomilano.it
Inaugurazione su invito: 8 maggio h. 18.30
Galleria Lampo – Scalo Farini
Via Valtellina 5 – Milano

Mani che nascondono il volto, che inquadrano in uno scatto fotografico piccole nostalgie ed irrisolte
inquietudini.
E poi occhi. Che osservano, che interiorizzano, che cercano uno spazio cui appartenere.
Infine, corpo. Corpo che si apre allo sguardo neutro e puro dell’obiettivo.
Che si sovrappone a paesaggi e persone, che si trasforma, che si eleva.

Gli autoritratti di Sofia Uslenghi, protagonisti della mostra personale dell’autrice, ospitata dal 9
maggio al 4 giugno alla Galleria Lampo di Milano, ci guidano in un universo fatto di suggestioni
ipnotiche, suoni naturali e odori della memoria.
Un immaginario poetico dove le storie si mescolano a ricordi antichi e impressioni profonde. E la
fotografia, tra tempi lunghi, esposizioni multiple e distorsioni ottiche, districa lentamente grovigli
identitari.
Sofia Uslenghi nasce a Reggio Calabria, metà famiglia di Gerace e metà di Messina. Dopo aver
trascorso l’infanzia sullo Stretto, da adolescente si trasferisce a Brescia, poi a Parma, dove
frequenta l’università. E infine Milano. Ma è nella terra d’origine, nei suoi colori e profumi, tra l’erba
secca e il finocchietto selvatico, che cerca e trova ancora le sue radici.
Dal primo progetto fino ai più recenti scatti, parte di un’opera ancora in fieri, CASA/TERRA/IO è un
viaggio alla scoperta dell’autrice, del suo paesaggio interiore e dei suoi lavori.
L’allestimento evoca il nomadismo malinconico che ha finora caratterizzato la sua vita,
ricostruendo alcuni interni domestici, dove mobili di recupero o disegni stilizzati a muro e sul
pavimento vogliono riportare chi osserva in una sorta di intimità ricreata, in quella solitudine tanto
necessaria all’artista per la creazione. Sulle pareti, finti fondali identificano lo spazio dove nasce
l’autoritratto e, da un ambiente all’altro, tappa dopo tappa, percepiamo l’evolversi della sua figura e
della sua arte. La vediamo tra le piccole cose che mancano, tra i vuoti d’aria del suo girovagare da
una casa all’altra, nel suo cercarsi per trovare, infine, nella fotografia lo strumento che unisce i
puntini sospesi, supera gli spazi fisici e va oltre il reale. Ogni ambiente accoglie uno dei lavori della
fotografa, a partire dal suo primo progetto, Flora, a My grandma and I (Nonna), Maps, Earth-
Diptychs fino ai più recenti autoritratti.

Nel primo lavoro, Flora (2015-2016), gli occhi sono quasi sempre chiusi, in un bianco e nero
leggero ed evocativo, in cui la figura viene sovrapposta, quasi nascondendosi, a immagini di
elementi botanici e floreali; l’autrice ricrea in questa serie un’estetica rilassante e silenziosa, lontana
da una narrazione urlata e prepotente in cui rifiuta di riconoscersi, riflettendo un’immagine di sé –
apparentemente – rasserenata nel contatto con la natura e nel superamento di una visione
stereotipata del corpo e della sua esibizione.
My grandma and I (Nonna) (2016) è uno dei quattro progetti della fotografa legati alla memoria
famigliare e del territorio, dopo Homesick e prima di Maps e Earth-Diptychs. In una scatola di
vecchie fotografie di famiglia, l’autrice ritrova alcuni scatti che ritraggono la nonna Isabella,
scomparsa all’età di 68 anni. Nella sua figura, apparsa in sogno più volte, quasi a ricucire uno
strappo irrisolto, e nella casa di famiglia di Gerace frequentata durante l’infanzia, Sofia Uslenghi
trova il filo che ricostruisce la sua storia, il senso di appartenenza ad una comunità e, non da ultimo,
le sue radici più profonde. Negli autoritratti della serie l’immagine dell’autrice si sovrappone a quella
della nonna, ripresa sorridente al Lido di Reggio, sul balcone o durante una gita in barca. Nei luoghi
della memoria, il bianco e nero riunifica e rappacifica.
“Il girovagare è ormai parte della mia esistenza. Negli anni in cui ho iniziato a fotografarmi e a
sovrapporre la mia immagine a quella dei luoghi della mia infanzia stavo realizzando la mancanza
di radici. Mi sono resa conto che mi mancava un pezzo. Ed è il motivo per cui quando torno a
Gerace mi sento a casa anche se non ci ho mai vissuto. Mi viene da usare il verbo tornare e non
andare perché ho sentito che le mie radici fossero lì. E questa per me è una certezza rassicurante.
Il sapere che esiste un luogo nel mondo in cui ci sono dei fili che ricostruiscono una storia, una
comunità che ti riconosce in una qualche misura l’appartenenza.” 
In Maps la relazione con il territorio di origine è espressa con un’estetica più soffusa e
un’ispirazione pittorica. Le opere sono il risultato della sovrapposizione di autoritratti con
screenshots di immagini satellitari degli ambienti esterni dove la fotografa ha trascorso i primi anni
di vita. Il colore – presente anche in forma di macchie sul corpo – suggerisce nuove stratificazioni: la
ricerca dei paesaggi predilige strisce di terra (dalle fiumare caratteristiche della zona calabrese al
nero dell’Etna) e i passaggi delle correnti del mare, che lo trasformano dall’alto da blu intenso a
verde e ad azzurro.
Nell’ultimo progetto legato alla memoria del territorio e alle radici, Earth-Diptychs, la relazione con
la natura calabro-siciliana è indagata in un modo differente. La sovrapposizione lascia il posto ad
una sorta di dialogo a distanza tra l’autrice e il paesaggio: l’opera, come un canto a due voci,
accosta gli autoritratti ad immagini tratte da Google Street View, strumento che consente di
esplorare i luoghi senza essere fisicamente presenti. Dall’Aspromonte all’Etna, da Salina a
Cammarata, dalla Limina a Palermo, la narrazione si fa accettazione della separazione.
Infine, il lavoro più recente è un atto di astrazione dalla realtà, un intervento di matrice surrealista,
attraverso un processo tecnico ed espressivo di solarizzazione. “Voglio sparire, voglio vibrare”, dice

l’autrice, che pare svanire a poco a poco, persa tra paesaggi onirici in bianco e nero e distorsioni
liberatorie, trovando, forse, nella visione totalizzante dell’arte la giusta distanza dal sé e
quell’equilibrio tanto anelato.
“I’m looking for something I don’t find, I want to run away from reality, multiply it and make it even
more inaccessible.”
“La mia necessità di fotografarmi non mi è ancora del tutto chiara e in un qualche modo, più vado
avanti, più scopro nuove motivazioni. Inizialmente lo slancio è stato sicuramente relativo alla
questione del mio corpo, del riuscire a guardarmi in uno spazio protetto dai giudizi, dai canoni, dalle
critiche, dalle intromissioni esterne, richieste o non richieste che fossero. Poi ho esplorato alcune
mancanze che sentivo, nei confronti della comunità di nascita o delle persone della mia famiglia,
dello sradicamento e della questione nord verso sud. Ora sono in un’altra fase ancora: anni
complicati, strada incerta davanti, poca chiarezza di chi sono e cosa ci faccio qui, e quindi c’è in
corso un nuovo progetto che spero che come gli altri mi faccia da mezzo di trasporto per nuove
consapevolezze, e – forse anche stavolta – lo scoprirò strada facendo, il motivo per cui sto
fotografando in questo modo e cosa voglio dire.”

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